Venerd� 02 Gennaio 1970
Panocchia, non è una spiga di granoturco e nemmeno un pesce, è il mio paese, oggi un agglomerato di case, ieri erano poco più di una cinquantina, case nate sulla direttrice che fiancheggia la Pärma e scende verso la città, collegate e divise dalla strada pedemontana, che vede a sud il clero e l’industria a nord la borgata. Borgheda.
Gli anni non hanno scalfito la sua origine agricola, la parte sud ha però perso nel tempo il prete e la sua componente industriale legata al mondo dell’agricoltura, le storiche fabbriche della trasformazione del pomodoro, la parte a nord è la più deformata, un luogo dove si la maggior parte degli abitanti ci passa la notte.
Di Panocchia io sono un sudista, abito l’ultimo podere della frazione, che ha di rimpetto il castello di Torrechiara, con retroscena l’ordisco ora delle cime dolci, poi sempre più aspre dell’anfiteatro dell’Appennino Tosco-Emiliano.
Ciato, così si chiama il podere, toponimo di derivazione romana ha sempre il suo fascino, sia nei mesi più freddi, dove a volte la nebbia sfuma i contorni, così come negli altri mesi, quando l’umidità crea foschia, o come quando il sole picchia in verticale sulle teste padane, come ricordava Giovannino Guareschi, con il nitore del sole allo zenit e il Marino che arriva ad asciugare le cosce dei porci.
Così come la stagione è mutevole allo stesso modo con ritmo diverso lo è stato il paesaggio, ma noi abbiamo fatto di tutto per conservare ogni pietra ed ogni sasso di Ciato come lo abbiamo trovato si che possa narrare storie di donne e di uomini che qui hanno vissuto anche solo in parte le loro esistenze di vita, forse difficile, ma anche piena di fascino.
E la storia continua nell’incessante susseguirsi delle stagioni.
Ciato: Ieri quasi prettamente zootecnica, poi orticola cerealicola ed oggi in parte rivolta al turismo, si da raccontare agli interessati parte di storia della metamorfosi di un paese che da altera identità, oggi sfuma nella storica memoria dei pochi passionali indigeni.
Panocchia, non è una spiga di granoturco e nemmeno un pesce, è il mio paese, oggi un agglomerato di case, ieri erano poco più di una cinquantina, case nate sulla direttrice che fiancheggia la Pärma e scende verso la città, collegate e divise dalla strada pedemontana, che vede a sud il clero e l’industria a nord la borgata. Borgheda.
Gli anni non hanno scalfito la sua origine agricola, la parte sud ha però perso nel tempo il prete e la sua componente industriale legata al mondo dell’agricoltura, le storiche fabbriche della trasformazione del pomodoro, la parte a nord è la più deformata, un luogo dove si la maggior parte degli abitanti ci passa la notte.
Di Panocchia io sono un sudista, abito l’ultimo podere della frazione, che ha di rimpetto il castello di Torrechiara, con retroscena l’ordisco ora delle cime dolci, poi sempre più aspre dell’anfiteatro dell’Appennino Tosco-Emiliano.
Ciato, così si chiama il podere, toponimo di derivazione romana ha sempre il suo fascino, sia nei mesi più freddi, dove a volte la nebbia sfuma i contorni, così come negli altri mesi, quando l’umidità crea foschia, o come quando il sole picchia in verticale sulle teste padane, come ricordava Giovannino Guareschi, con il nitore del sole allo zenit e il Marino che arriva ad asciugare le cosce dei porci.
Così come la stagione è mutevole allo stesso modo con ritmo diverso lo è stato il paesaggio, ma noi abbiamo fatto di tutto per conservare ogni pietra ed ogni sasso di Ciato come lo abbiamo trovato si che possa narrare storie di donne e di uomini che qui hanno vissuto anche solo in parte le loro esistenze di vita, forse difficile, ma anche piena di fascino.
E la storia continua nell’incessante susseguirsi delle stagioni.
Ciato: Ieri quasi prettamente zootecnica, poi orticola cerealicola ed oggi in parte rivolta al turismo, si da raccontare agli interessati parte di storia della metamorfosi di un paese che da altera identità, oggi sfuma nella storica memoria dei pochi passionali indigeni.