Maggio -fra aia e cucina-

Sabato 01 Maggio 2010

Maggio -fra aia e cucina-

Storie racconti dell'agriturismo Ciato di Schianchi Mario

Maggio. Correvano gli anni cinquanta, l'azienda Ciato era allora come si usava dire tutta piantumata, filari di uve sorrette da giganteschi olmi intercalati da piante da frutto. Mia nonna, che mi ha lasciato un buon bagaglio storico culturale, quando io nacqui, marzo 1950, andò in cantina a prendere due fiaschi di quello buono da portare a quegli uomini che stavano per l'appunto vangando la vigna. Già di quello buono, perché qui da noi nella valle del Parma, non cera la cultura del vino, da qui passavano in tempi più remoti anche i pellegrini che come i nostri uomini non avevano bisogno di vini inebrianti che caso mai ti falciavano le gambe, ma vini dissetanti, perché erano loro a dover falciare dal sorgere del sole al tramonto con la classica falce a manico curvo.

Li ricordo benissimo, arrivavano fischiettando al sorgere del sole, ognuno pigliava la propria falce appesa ad un palo ancorato ai travetti del vecchio portico, la sua "socà", un pezzo di legno che fungeva da sgabello, poi piantato fra le fessure dei grossi sassi dell'aia uno strano ferro, toglievano il manico dalla falce e incominciavano, con un apposito martello ha batterla su tale ferro per renderla più tagliente. Durante questa operazione spesso discutevano sulle qualità dell'una o dell'altra falce. Appena finito di battere la lama, ri-inmanicavano la propria falce, riempivano d’acqua ognuno il proprio "coder", corna di bue incavato che serviva per tenere in ammollo la pietra abrasiva per rendere ancor più tagliente la falce e si incamminavano su per la carraia, ora bestemmiando, ora cantando.

Mio compito appena fui in grado di portare una sporta; che gli uomini con la "pavera", ma qui da noi usavano di più i "scartoc" le foglie del granoturco; costruita nelle stalle nei periodi invernali, era portare da bere. Un bottiglione di acqua per lo più per le donne e uno "d'incapladuri". Già, torniamo al vino. Finita la vendemmia per alcuni giorni si andava tutti in cantina, le donne per lo più dentro il "navasol" potremmo definirla una specie di barca a fondo piatto sistemata su cavalletti leggermente in pendenza, che serviva per fare scendere a seconda delle necessità o solo il mosto o gli sgraspi. Gli uomini buttavano le cassette di uva dentro al "navasol" raccoglievano il mosto in grossi bigonci di legno per travasarlo nei tini e le donne a piedi nudi e con le gonne tirate abbondantemente sopra le ginocchia mostavano l'uva. L'inebriante fermentare del mosto e la scena, erano motivo di festa e di euforia alla quale potevo assistere, anzi spesso mi inserivano un po' per gioco un po' per farmi stare zitto in mezzo alle donne, non disdegnando battute ora rivolte a me ingenuo, ora alle donne.

I tini erano enormi, le bocche da dissetare tantissime. Finita la svinatura il vino veniva messo in damigiane per un ulteriore fermentazione, diviso con i proprietari del fondo, una parte venduta ed una piccola parte imbottigliata dopo apposita filtratura per le occasioni speciali, quali la trebbiatura, l'arrivo di un ospite o i giorni di sagra. E per tutti i giorni? "Gl'incapladuri" che altro non era che acqua buttata sugli sgraspi rimasti nei tini, lasciata alcuni giorni, svinata e mescolata con le torchiature, cioè un ulteriore estrazione di liquido ottenuta dalla pressione degli sgraspi dentro il torchio per dargli più colore che sapore.   

Mia madre spesso era nei campi, ed io rimanevo a casa con la resdora, mia nonna, che mi intratteneva in mille attività, lei tirava la sfoglia, mi ricordo che erano sfoglie gigantesche, e io dovevo fare i maltagliati. Se lei filava io dovevo fare i gomitoli, avevo persino imparato a fare le calze di lana con cinque aghi. Di giorno poi, a raccogliere ortiche da stagliuzzare per i tacchini più piccoli. Maggio…., il tempo in cui i giovani davano il benvenuto alla bella stagione, quando il fogon tornava a far bella mostra di se nell'aia, piena di profumi e di fiori, delle lenzuola stese sui verdi prati, dei primi amori e del primo fieno che incominciava la sua fermentazione dando rifugio e dolce tepore alle coppiette. Il tempo in cui i galletti che, povere bestie, ignari della loro sorte, tentavano anch’essi le prime esperienze, ignari che ancor prima dell’esperienza sarebbero diventati i capponi. La loro menomazione dava corpo ad un piatto di tradizione primaverile che ancora non solo ricordo, ma al solo pensarci ne riguasto i sapori. Questo è veramente un rimpianto, un piatto che posso raccontare ma non rivivere se non nei ricordi.

Si usavano le creste i bargigli e le “palle” dei galletti capponati

Il tutto a friggere in tegame rigorosamente di ferro con burro.

 

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