Mercoled� 23 Aprile 2008
E‚Äô l‚Äôepoca in cui gatti e cani vanno dal dietologo, l‚Äôepoca in cui vieni ripreso se osi offrire loro un osso di prosciutto, l‚Äôepoca sconcertante e di rapida trasformazione dei costumi che interpone un muro fra il vissuto di chi ormai ha i capelli bianchi come me e chi quel mondo lo ignora totalmente. Tromboni pubblicitari che trasformano in insoddisfazione ogni traguardo che tu possa raggiungere, trasformando la tua vita in una corsa frenetica senza meta. I rapporti umani, prima fonte di convivenza e di civica morale si inquinano, si dissolvono, si sbriciolano, lasciando solo posto all‚Äôego, all‚Äôio, perchè è mio diritto e dovere dell‚Äôaltro. Ed è cos?¨ che isolandomi per quel poco che mi è possibile ogni tanto mi piace vivere dei miei amarcod, rispolverare quei sacri valori ormai sbiaditi, un passato di tradizioni, di usi, costumi, o meglio di civiltà, che se nessuno scrive rischiano di non passare alla storia delle generazioni future, perch?© quasi ci si vergogna di essere figli di chi ha vissuto quella ricca miseria. Certo sono piccole cose, schegge di un tempo passato, aneddoti e ricordi insignificanti, ma tasselli di un vivere popolare, humus indispensabile per le mie radici. Qualc‚Äôuno dirà che sono veramente contadino troppo attaccato alla mia infanzia adolescenza, e probabile, ma non è che voglia trastullarmi nel ricordo del passato, sarei sciocco. Questo passato sono per me le radici attraverso le quali nutrire i rami e le foglie di ogni nuova stagione dove deve passare il buono, l‚Äôesperienza e la saggezza per essere proiettata al futuro. Ed è cos?¨ che nella penombra e nella solitudine del mio angolo d‚Äôufficio rivedo quell‚Äôimmenso campo di cipolle dorate di Parma che dalla casa volge alla strada Pilastro, a quei tempi ancora ghiaiata e polverosa, dove le donne erano intente a fare le andane al centro delle scie, affinch?© le cipolle coperte dal gambo che le riparava dal sole potessero raggiungere il giusto grado di umidità per essere conservate nelle cassette di legno. Durante il periodo della raccolta le donne oltre a vecchi pantaloni di tela blu e alle ginocchiere per alleviare il dolore sulla secca terra portavo grandi cappelline di paglia per ripararsi, ma al pomeriggio presto il sole era alto e rovente ed ogni ora dovevo portare loro da bere e cos?¨, se al mattino me la cavavo con due giri al pomeriggio erano sicuramente tre ed anche quattro se si ritiravano verso le sette. Era il giro delle sedici quello che facevo più volentieri, perch?© proprio su strada Pilastro, 10 minuti in più o in meno spuntava il bianco triciclo a pedali di ‚ÄúGerbon‚Äù il gelataio di Felino che sudato come una bestia spingeva, forse trenta chili di ghiaccio in partenza per conservarne cinque di gelato. Oggi i suoi nipoti gestiscono un meraviglioso locale. Chissà se sanno del nonno, di quell‚Äôomone, con giacchetta bianca a mezze maniche, che si fermava lungo la strada per confezionare solitamente una decina di coni da dieci lire, che alle due del pomeriggio, partiva lungo la pedemontana, per salire sin quasi a Torrechiara al bivio della badia, scendere da via, oggi Stanislao Campana, via Pilastro e ritorno. Non tutte le piazze erano buone, doveva guardarsi, raccontava mentre mi sporcava un cono di gelato, dal fermarsi da certi affittuari, ‚Äúnon vogliono che gli operai perdano tempo per il gelato‚Äù. Noi eravamo mezzadri, mi faceva piacere che papà, che aveva preso per questo aspetto da nonna Gigià lo permettesse, non tanto per quella leccatina che toccava anche a me, ma perch?© da noi la gente veniva volentieri a lavorare ed era disponibile a rimanere anche oltre l‚Äôorario se c‚Äôera da finire un lavoro, erano loro a proporsi, tanto sapevano che la Gigià in un modo o nell‚Äôaltro avrebbe provveduto. Non erano rare le mangiate, fatte di cose povere, ma con l‚Äôanima, che nonna e l‚ÄôAnselmina, mia mamma, improvvisavano sull‚Äôaia. Ma nella loro bontà papa e nonna erano burberi e severi e non sempre inclini al perdono con chi faceva loro un torto o cercava di farli fessi, un po‚Äô gli assomiglio anch‚Äôio, pur avendo un cuore che sa commuoversi come il loro anche solo per una frase. Ed è stato proprio qualche giorno fa che mi è scesa una lacrima alla fermata dell‚Äôautobus, in città. Si avvicina un signore con qualche anno in più dei miei, sui sessantacinque, un signore che abita sulle colline di Langhirano, di sopra a Panocchia, e dalla fisionomia mi riconduce a Sesto, mio padre, e mi racconta che sua mamma scendeva in bicicletta a lavorare a Ciato, l‚Äôazienda che oggi è di mia proprietà. Lo racconta anche lui con una certa commozione e seppure, al tempo ragazzino anche lui, ricorda che mamma scendeva volentieri a Panocchia nel periodo dei raccolti, perch?© oltre alla paga ci si trovava bene ‚Äúuna gran brava famiglia la vostra‚Äù. Sicuramente all‚Äôora come oggi c‚Äôera e c‚Äôè la differenza di ceto sociale, ma oggi sono sicuramente aumentati quegli ‚Äúaffittuari‚Äù arroganti e presuntuosi che danno solo peso alla loro posizione sociale, gente che spesso viene dalla polvere. Ecco allora che fra gli amarcord torna alla mente la saggezza dei proverbi che spesso sentivo rincorrersi nell‚Äôaia ‚Äú an ghè gnita ed pes che un pioc arfat‚Äù non c‚Äôe nulla di peggio che un pidocchio rifatto, come dire che non vi è nulla di peggiore di chi riesce a raggiungere una posizione che per ceto non aveva. Dai ricordi di Schianchi Mario. Ciato, Panocchia