La voce dei campi

Sabato 25 Luglio 2009

La voce dei campi

Riserva indiana. Assessori fotografi

Erano gli anni ottanta quando ha mia firma il “Gazzettino Agricolo di Parma” annunciava che noi agricoltori ci saremmo trovati come gli indiani di America in una riserva.
Dicono che non rappresentiamo nulla, siamo solo un misero 3% della popolazione.
Poco perspicaci coloro che non ci riconoscono di rappresentare il settore primario, che non convengono sulle nostre produzioni, l’indotto che gira e vive attorno a noi, e il ruolo sociale che inconsapevolmente ognuno di noi svolge.
L’agricoltura va vista nella prospettiva ormai ineludibile della multifunzionalità
dell’impresa agricola (con le sue esternalità non retribuite) e della diversificazione delle sue
attività, che porta alla nuova accezione dell’azienda pluriattiva, elemento chiave del sistema
agroalimentare moderno europeo.
All’EIMA di Bologna il presidente della Unacoma (organizzazione costruttori macchine agricole) Massimo Goldoni annuncia un 40% di personale in esubero.
Pensate, allora, sia troppo chiedere una strategia d'insieme per il made in Italy?
Analizzando il comparto agroalimentare ci accorgiamo che nonostante sporadici sussulti, la bilancia nello scambio dal 1911 presenta un colore che nei registri contabili non è sicuramente gradito.
Una tendenza che negli ultimi tempi si sta accentuando in modo se non drammatico, sicuramente preoccupante.
Esaminando con maggiore attenzione; sono le materie prime, le produzioni agricole di base che segnano un cronico spaventoso passivo, meglio i prodotti dell’industria alimentare.
Per alleviare ai spaventosi deficit del settore primario, oggi si evita di parlare di pura agricoltura, ma di agro-alimentare, è dunque sull’agroalimentare che si è concentrata l’attenzione degli operatori e non di meno dei pubblici poteri.
Così, negli anni, anche l’agricoltore ha dovuto integrarsi e guardare a strategie di valorizzazione della fascia alta di prodotti derivati che si collocano in un segmento di maggiore valore aggiunto e che possono essere competitivi su attributi difficilmente oggetto di concorrenza, se non sul piano della falsificazione o dell’imitazione.
Sin qui nulla di strano, anzi elogiabile, una compartecipazione nella diversificazione, una segmentazione, una valorizzazione prodotto/territorio, all’interno di un affermata economia gradita agli analisti dei meccanismi di mercato. Da buoni italiani, ma soprattutto grazie al patrimonio culturale enogastronomico dei nostri territori siamo i primi con il maggior numero di prodotti DOP e IGP. Ma basta la vasta diffusione di questi concetti di qualità, di affermazioni, l’italianità, tutte queste caratterizzazioni per rendere remunerativo il lavoro dell’uomo dei campi?
Distretti, filiere, non sembrano avere influito più di tanto sui bilanci delle singole aziende agricole; va probabilmente riletta, ridefinita questa strategia affinché sia l’agroalimentare italiano nel suo complesso a godere dei frutti di questo sistema che chiede investimenti e sforzi sopratutto al primo anello della catena.
Se ci rivolgiamo al passato ci sono state lodevoli iniziative di aggregazione, penso ai consorzi agrari, alla CCL del formaggio, al settore ortofrutticolo, che nel recente hanno subito una forte perdita di interesse, peggio, disaffezione da parte dei produttori. Dovremmo interrogarci cosa abbia annullato questa coesione di quel misero 3% di agricoltori rimasti sul territorio. Ancora una volta, la buona fede dell’agricoltore, che ha spesso delegato permettendo a chi aveva interessi diversi di incunearsi in quelle strutture che se giustamente gestite potevano dare valore aggiunto non solo al lavoro dei campi ma a tutto il comparto agroalimentare.
Miopi, coloro che hanno rincorso solo il profitto fine a se stesso, importando e trasformando le materie prime degli altri Paesi, che oggi pensano di legare il prodotto al posto di trasformazione, trascurando quel trinomio che il consumatore avveduto oggi richiede “ territorio ambiente prodotto”.
Purtroppo, come scrivevo a margine della conferenza provinciale sull’agricoltura parmense: le nostre eccellenze non possono essere per tutti, ma se il prodotto inizia a perdere le sue peculiarità non sarà per nessuno. Ed è così che il mio solito fornitore, agricoltore toscano, quando in autunno gli ho commissionato la fornitura di olio mi ha detto di farne una buona scorta perché magari quest’altro anno smette. Si perché produrre olio non è più remunerativo, oggi siamo, seppur autosufficienti importatori di olio tunisino e algerino, ma come sappiamo coltivare l’ulivo non è come coltivare grano, se mai il mio amico dovesse abbandonare la coltivazione, che ne sarà?
Vorrei, ritornando agli anni ottanta, riproporre in sintesi un stralcio d’intervento di Lucchini già presidente di Confindustria in un convegno a Firenze: ..”fra i molti compiti impegnativi del nostro tempo figura anche questo. La necessità di creare in Italia un forte e ordinato settore produttivo agricolo – alimentare – industriale sviluppando l’agricoltura, ben collegata con le imprese di trasformazione e di lavorazione industriale dei suoi prodotti. La naturale continuità tra agricoltura e industria e una comune cultura imprenditoriale sono esigenze di una società moderna.”
Dove erano e dove sono le nostre professionali !?
Al posto di Lazzaro, a rivendicare le briciole che cadono dal tavolo, ad auspicare una sempre maggiore burocrazia che oramai ci costringe ad un impegno pari ad un terzo di quello richiesto per una normale attività agricola, perché non essendo più in grado di fare sindacato la loro sopravvivenza dipende dal numero di fogli che riescono a consumare, degradando l’ambiente e il bosco. Chi produce burocrazia non produce reddito, ma diminuisce il reddito di chi fa impresa.
Piaccia o no, siamo proprio come gli indiani d’America, balliamo per vivere, portiamo le nostre primizie al mercato del quartiere, ospitiamo chi ancora può, per fargli degustare i piatti della nonna, per dare e far vivere un emozione a chi può permetterselo, per riversare il ricavato nelle tasche del “padrone”. Illusi coloro che pensavano alla bontà della proposta industriale, o alla forse, buona fede dell’allora loro presidente, i trattini hanno diviso e non unito, (agro-industria, agro-alimentare), basti pensare a uno dei più grandi teorizzatori: Calisto Tanzi. A breve, tempo permettendo, inizieremo la raccolta di mais, consapevoli che per il quarto anno consecutivo andremo a dedurre i proventi che ci sono riconosciuti dai diritti della PAC, così come sta succedendo sui cereali a Paglia.
Ma ha senso? Continueremo per molto a polverizzare quel già misero reddito, o fermeremo i trattori per vivere almeno sino al 2013 di sovvenzioni.
Oggi hai reddito solo se riesci a vendere il terreno a questa politica industrializzata, che sta asfaltando e cementificando gli ettari migliori della nostra pianura, ma a che pro, se diversi capannoni sono sfitti, vuoti, per il gusto degli oneri di urbanizzazione, che mai bastano a sanificare le sfondate casse comunali? Per riportare in campagna chi la abbandonata negli anni sessanta, lasciando semideserti certi quartieri delle città? Per venire ad ostacolare le nostre normali attività che si perpetuano da centinaia di anni? E che dire del nostro ministro e dei vari assessori. Continuano a correre per fotografare situazioni drammatiche, si stanno specializzando in fotografia, da rilegare e magari appendere nei vari musei del cibo. Si, perché continuando così probabilmente solo lì e li solo potranno trovare i nostri DOP, ma sono di legno, di plastica o di carta. Anche noi probabilmente perderemo la memoria di certe prelibatezze, ma due patate e un uovo cotti nella cenere del camino ci resteranno.
Mentre stavo per terminare questo mio piccolo scritto, con animo sicuramente scoraggiato e sconsolato, come spesso accade nella vita, un caro amico, ex A.D. di una grande azienda mi ha portato una nota di conforto, ma non certo di speranza. “Siamo arrivati a questa situazione perché molti manager non vengono più dalla terra, non hanno manualità, vivono di un economia virtuale, mentre noi vecchi professionisti avevamo non solo la manualità di chi ha passato la gioventù in campagna, ma nel nostro DNA era ben impresso il sistema economico e produttivo trasmessoci dai nostri cari e vecchi contadini.
Vuoi vedere che ancora una volta per risollevare questo triste Paese avranno bisogno anche di noi? Personalmente, auspico, dal momento che hanno potuto studiare, i miei figli non commettano l’errore di lasciare spazio, come abbiamo fatto noi, a mediatici fantasmagorici personaggi, solo perché avevano un pezzo di carta, carta da cestino, quella che dispensava quell’università …, non certo quella dei Bassanelli.

Schianchi Mario

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