Mercoled� 17 Gennaio 2018
… non so se a voi è mai capitato stando davanti al tremolar delle fiamme del camino di tornare ragazzini. Sessanta e più son passati da quando muovevo i primi passi lungo le strade di Panocchia, quella piacevole contrada che anche il Galaverna nel suo “Batisten Paneda” ti invitava a visitare. … “vriv andar fina a Panocia? – al Pilaster bvi una bocia- po’ volté con poca fadiga l’è al sit ed la Fodriga”… .Se mai dovesse capitarvi, anche a voi verrà la tentazione di fare memoria del vostro natio Paese, di come era la sua borgata, nella speranza di rivedere tracce di un tempo che nonostante gli anni passati siano relativamente pochi sembreranno inesorabilmente e irrimediabilmente cancellate.
Allora inevitabile “sarà un grup" –nodo- in gola, una lacrima furtiva sulla guancia, perché vi illuderete anche solo per un attimo di rivedere quei muri, quegli angoli e quei volti che ora nitidi ora sbiaditi baluginano negli occhi e nella mente.
Per chi, come me ha qui i natali, o in una simile contrada, e gli capita di leggere queste righe, sa bene che tutto questo non è più così, ma non gli potrà sembrar vero di mentire a sé stesso sperando che l’artifizio romantico abbia a durare il più a lungo possibile; ma come tutte le illusioni della vita anche questo avrà durata breve, perché “Panocia l’annè pu Panocia”. Così la scena si dissolve mentre viene meno la pietosa capacità dell’inganno suggestivo.
Immediatamente si prova disappunto, dispiacere, poi un sentimento quasi di rabbia per questo nuovo mondo quasi demenziale che privo di quel minimo di umanità, inarrestabile avanza.
Così posso ricordare i primi passi lungo lo stradone che dall’angolo della corte di Ciato si immetteva su strada Pilastro (l’asetà). Così chiamata perché trasversale al fosso insisteva un asse di legno dove la Gobetà, vedova Ghirardi, attingeva l’acqua “coria” -che corre- e lavava i panni. Si, di fronte a Ciato insisteva e per fortuna insiste anche se non ha più i fasti e le figure del tempo, villa Rognoni e la Mamiana, vecchia azienda agricola in cui trovavano dimora “al mecanic Etore”, papà di Umbero Mora e della Faustina, fascista e “trid c’mè l’Albania” ma con una manualità unica, ricercato in tutto il circondario, tanto è che presto riuscì a comprarsi un casa e un pezzo di terra dove si fece la nuova officina, là, dove oggi insiste piazza Italia 61. Poi ci abitava Giovanni, grande, grosso e robusto, e sua figlia Valeria, che presto si trasferì a Parma, la Giovanna la figlia “fiola dal Maringon, Zamberlet” –falegname- e di fianco alla Girardi i “mut e i so du fio, un po’ schelzabrena” La villa invece era temporaneamente ed in parte abitata dallo Scaccaglia, un tutto fare, ed in parte vuota in quanto i Rognoni, fascisti, tornarono ad abitare la villa in estate negli anni settanta. Ci abitava la Pepina e tanti altri, si perché allora le case di Panocchia sembravano tutte un formicaio dove si usciva e entrava da porte e finestre e rimembrare tutti sarebbe impossibile.
Se infondo allo stradone giravo dalla parte opposta ovvero verso est di fronte mi trovavo la chiesa con il mitico “don Petrolen, so medra la Mariola e el so sorelì”. Spesso visitata anche da un certo don Accarini, ex missionario, che dicono venisse in missione, e che missioni. Felici zitelle e giovincelle, come pure per le suorine dell’asilo che se al mattino dopo mostravano qualche lividuccio affettuoso, si giustificavano con una visita nella notte del diavolo. Don Accarini sarà in seguito colui che sancirà il mio matrimonio senza le autorizzazioni che occorrevano al tempo con la indimenticabile frase “Se col coion dal to prete e col sioc ed breta rosà inet’dan miga al permes mi te spos listes, vedema se lor ien bon ed dividret” – Se quel coglione del tuo prete e quello sciocco del vescovo non ti danno il permesso io ti sposo comunque, vediamo se loro sanno dividerti-. Fra la strada e lo stradone faceva angolo in caseificio di Camorali, famoso il suo pane di burro con al centro la immancabile bolla di acqua, più avanti villa pretorio che ospitava “Nibel la Mariana, l’Angela e la Silvana, la Niton” e suo marito e relativi famigliari.
Se all’incrocio con l’attuale strada Stanislao Campana, giravi a destra sulla via che porta alla badia benedettina di Torrechiara a sinistra trovavi corte Cantelli; in quel periodo il cortile era pieno di figure di cottimini e casanti, ma c’era anche la bottega del Benecchi “al calsoler e Bazaren” il merciaio con quel soprannome che la dice lunga, e il suo mitico Fiat 501. Più avanti sempre sulla sinistra la Fiorita, Carrobbio, dove abitava Bonfiglio, Capelì, la cui mamma prima di morire mi iniziò alla guarigione delle storte e Aldo dal Daino di cui ricordo le aggrottate sopracciglia. Più giù verso il torrente la fabbrica di pomodoro Ettore Ugolotti, di fronte Masi con Eraldo e la Marcellina e il figlio Tonino, uno fra i primi ad usare le macchine agricole, al campaner e Rotura che se aveva bevuto un bicchiere di troppo aveva la cinghia facile per tutta la famiglia, il cui soprannome era legato al fatto che in alcune circostanze con una manata rompeva tutto quello che era sul tavolo. Più a sud le case del monopoli, “la cà dal sartor con la Bicetà, ed Botion al Maringon e la botega ed la Bianchina”, più su ancora la fabbrica del pomodoro di Ludovico Pagani e al Pavul dove abitava fra i tanti, al Montaner e Padvanet il cui figlio fu uno dei primi a dedicarsi alla installazione delle prime TV e riparazioni radio e ai bicchieri di vino, ed ancora il mitico Gera, che in tasca aveva sempre un po’ di pepe per alimentare la sete. Bevitore che superava tutti, le cui sbornie spesso lo portavano a ruzzolare sulla ghiaia e se gli si chiedeva come mai avesse il volto rovinato vi rispondeva che mentre rincasava accompagnando il racconto da una sonora bestemmia rigorosamente in vernacolo vi raccontava che il treno gli aveva attraversato la strada. Famoso anche per avere cercato con la mannaia di ammazzare Togliatti e invece avevo solo spaccato la radio. Di fronte la storica falegnameria dei Cocconi. Piu avanti là dove finiva il Paese posto sul Canal Comune il “mulino di sopra” dei Chiari, Etorè, Pedren e Ginen. Ma se alla chiesa girate a sinistra sino all’incrocio principale sulla destra vedete il Castello Bevilaqua Cantelli e l’annessa fabbrica di pomodoro dei Poli mentre di fronte: le scale “ed la sartora, la Bruna ed Milien, al negosi ed fruta e verdura” della Gina con suo cognato Ercolen, gamba di legno che viaggiava per le case con il suo camioncino adattato al suo andicap. A fianco sempre sulla sinistra la “botega dal barber” il negozio e bar/osteria dei Greci dove il papà mi fece bere la mia prima birra, lo ricordo come fosse ora, e il piccolo laboratorio di lavorazione di carne suina. Più avanti e sempre sulla sinistra la mitica osteria “La Busa” chiudeva il gruppo di case dell’incrocio la “cà dal later” là verso le case “ed la Perma” lì insisteva anche la “fabbrica di Magnan” dove si costruivano le prime boule per la lavorazione del pomodoro. Quella strada, la pedemontana, che attraversa il paese da est a ovest me la ricordo per alcuni particolari. Correva il 1956 il papà mezzadro degli Ugolotti per accontentare il propietario si recò a comprare in Romagna, dal fattore dello stesso Ugolotti, propietario con la moglie Biggi di diversi poderetti condotti a mezzadria sulle colline di Riccione un paio di buoi romagnoli. E come si dice a Parma prese una consapevole “incantoneda” - fregatura - dal furbetto Baruffi. Erano più buoi da mare che da tiro e cosi per portare il pomodoro in fabbrica, sempre degli Ugolotti, appena di là dal ponte sulla Parma, io ragazzino salivo sul timone del carro fra le due povere bestie a sollecitarle “col stonbel” classico bastone di nocciolo. La cosa che meglio ricordo e la ghiaia del fondo strada ed il suo rumore che pareva musica sotto l’incedere lento dei cerchioni di ferro delle ruote del carro. Ma se all’incrocio anziché prendere la strada “ed la Perma” vi girate verso il Pilastro alla vostra destra avreste trovato la casa del “resghin” segantino, con vendita di segatura e legna da ardere o da lavoro. Girando all’angolo della casa a destra in “streda dal logret” -piccolo podere- infondo a sinistra la casa dei Rognoni dove abitava Gino Fereoli e la Noemi Boschi di quelle dinastie di agricoltori e norcini, mentre a destra l’asilo (scuola materna Ludovico Pagani) costruita sul desueto cimitero con la fattiva collaborazione manuale di tutti gli abitanti del contado, voluto dal prete e finanziato l’acquisto del materiale dall’arguzia del Pagani, affinché le donne potessero parcheggiare i ragazzini dalle suore ed andare a lavorare nella sua fabbrica di pomodoro, tutte vestite con le classiche vestaglie a quadrettini bianchi e rossi. Ma se fra Greci e la Busa prendete la strada che scende verso Parma attraverserete la “borgheda” con i suoi negozi Pitalobi al sartor, Pipen, la ferramenta più famosa di tutta la pedemontana parmense, dove si mandavano i ragazzotti meno avveduti a comprare “un chilo ed scantarena o na plataforta”. Qui viveva anche al Ris e la Risa, Bovaia, cacciatore più che lavoratore, con la fama di ricaricare e riciclare le cartucce anche più volte. Più avanti la Carolen ed la Guastala con Piero, ortolani a cavallo, per Piero quattro madonne ed una parola, Miston (abiti e stoffa), e di fronte al “palten” –tabaccaio-. Poi “al Palason” con il Duce, Gede il meccanico, il ciabattino e le famiglie che hanno dato folclore a Panocchia, Strosì, Rotelì, Cesron, ognuno con i suoi aneddoti che qui evitiamo di raccontare, eccetto uno fra i tanti che rendevano unico il personaggio di Cesaroni, che per un certo periodo prestò il suo lavoro anche qui a Ciato. “Nella credenza non avevamo niente e la Maria non sapeva cosa cucinare. Allora scesi giù dal calzolaio e mi feci dare un poco di pece e imbrattai tutta la marena che era nell’orto. Così incominciarono ad arrivare gli storni 1, 10, 100, 1000 e forse anche più, e rimasero incollati all’albero. Avvisai la Maria di preparare la padella ed usci per raccogliere gli storni che incominciarono a svolazzare ed ancora prima che potessi arrivare alla pianta erano talmente tanti che la sradicarono e volarono via con l’amarena”. Seguiva il bar al “scudler”, l’alimentere, la macelleria, il macello e il forno dei Cortesi”. Di fronte forse la prima cooperativa di generi alimentari con annesso circolo ricreativo, sede indiscussa dei rossi. Ancora più avanti sulla destra la scuola in classico stile littorio e di fronte il mulino di sotto, appena più avanti ancora una bottega di falegnami “al Dorò e al Botel”, cosi soprannominato per la sua mania di andare a “grottare” i classici pesciolini che vivevano nei fondali del torrente Parma, i Botol, appunto. Fratelli che gestivano anche una delle poche sale cinematografiche del tempo a cui si accedeva percorrendo lo stradello che divideva il forno “Briselì” di cui ricordo le veneziane che l’Olga veniva a vendere lungo la rete della scuola e il negozio di alimentari e macelleria dell’Argentina “ed Zuelì”, suo marito che curava l’attiguo macello, così soprannominata perché emigrata da giovane in Argentina. Più giù in un gruppetto di case popolari viveva al “Guc”, lo straccivendolo del paese che spesso vedevi con una zucca da pescatore attaccata alla cinta lungo l’asta principale del canale. Appena più avanti la casa della “Fodriga da Panocia” più avanti ancora Germen sulla sua sedia a rotelle che viaggiava per il paese e per “du bor” due lire, arrotava forbici e coltelli, abitavano qui anche i due carrettieri Gemon e Bendon che spesso tornavano a casa grazie alla memoria del cavallo.
Continuando verso Parma vi era il palazzo di Ghia con annesso podere affittato a Martini che portava due soprannomi che erano tutto un programma “Tachin e Caio”. Scendendo ancora verso Parma a destra e sinistra le proprietà Queirazza, con la Teresa e al Pipo custodi giardinieri della villa, e autista, ancora più giù a destra la falegnameria del Guisa e il caseificio di Sergio Cattellani sempre all’interno dei poderi Queirazza. Un altro “cioppo” –gruppo- di case era sulla stradina che partendo di fianco a Cortesi portava verso l’asilo dove trovava posto Fiorello il terzo sarto del Paese.
Passeggiando nella Panocchia di oggi, se mai vi capitasse di chiedere di questi personaggi, quasi tutti bestemmiatori dialettali e entusiasti bevitori; caso mai qualcuno si degnasse di rispondere, in quanto più abituati a parlare con i loro animali, mentre fra umani quasi tutti dialogano inviandosi, come facevano i primitivi, faccine con strani strumenti della tecnologia moderna, che chiamano emoil, quasi tutti dicevo, eccetto qualche vecchio come me, vi risponderà, “qui non c’è mai stato”. Il fatto è che un giorno, quei tremila occhi, piano piano se ne sono andati via quasi tutti, uno alla volta ed ognuno alla sua maniera, chi attratto dalle luci di La Spezia, chi di Parma, chi di Milano, Altri in sordina sono andati “avanti”, là dove la luce non fa capolino, fra quattro mura strette piuttosto che sotto un cumolo di fertile terra della pedemontana. Rimangono, di questi, per certi versi straordinari personaggi, i figli o nipoti, che parlano le più svariate lingue del mondo, un mondo pieno di saperi di conoscenza e di tecnologia ma povero di quei forti, a volte persino feroci, ma sani contrasti, che contraddistinguevano i rossi dai neri e dai cattolici, ma che finivano nel prevalere dell’etica, della morale e in conviviali piaceri e in caso di vera necessità in uno per tutti, tutti per uno. Come quando la Gigia, la mia nonna paterna, radunava tutti quei ragazzi affamati nella fornacella dove si condividevano con il maiale le patate cotte nella caldera. Questi sono gli uomini e le donne di quella Panocchia che io porto nel cuore e che ho voluto mettere nero su bianco prima che questi nostalgici ricordi siano per sempre annebbiati. Ho scritto per me, per rivivere, per rinfrescarmi la memoria, consapevole che pochissimi daranno attenzione, perché chi non ha avuto la fortuna di affondare le proprie radici qui, in quel tempo, per certi aspetti misero, ma ad ogni alba gonfio di una nuova speranza, non può se non ha nelle vene l’humus particolare di questo fazzoletto di terra che ha forgiato le sue genti come i prodotti, non può capire comprendere gustare. Tesori immateriali che purtroppo non tutti possono gustare.