Domenica 24 Ottobre 2010
In campagna ci si dissangua prima di estirpare un vigneto o un frutteto o chiudere la stalla. Chi ha buona memoria ricorderà negli anni settanta la corsa sfrenata partita dalla Lombardia dei cento quintali di latte nei trecentocinque giorni di mungitura, sfida senza riscontro nel resto dell’Europa che però vinse la partita e molti di noi dovemmo chiudere le stalle. Pensammo anche di risolvere i nostri problemi con quelle gigantesche macchine che incontravamo all’Eima piuttosto che a Verona, per fare più in fretta, per accorciare i tempi di lavorazione, illusi noi e chi ce li proponeva, una meteora che durò poco anche per i costruttori. Inutili, macchine assurde, nate per altri, macchine che riempivano i cortili ed avevano necessità di spazi, per loro era tutto troppo stretto.
Ed allora giù ad allargare le carraie, abbattere alberi e filari di viti, chiudere fossi; a distruggere l’azienda articolata nelle varie culture della fatica e della passione di tante generazioni, con l’avanzare della quasi monocultura, mettendo in evidenza gli angusti confini che tali però rimanevano. Tutto ciò ha portato all’uso massiccio e spesso scriteriato di ammendanti, concimi e diserbanti, perdendo il concetto di una sana rotazione che era ancora sacra per i nostri padri. Ma anche qui abbiamo perso la nostra battaglia, non siamo stati competitivi sul rapporto prezzo/quantità. Ma la nostra terra, la pianura padana ha tempi di risentimento molto lunghi, a volte persino troppa pazienza, ci ha insegnato, e questo si lo abbiamo capito, che abbiamo prodotti superiori per qualità, anche se non siamo ancora capaci a sufficienza di valorizzarli e di difenderli. E così il reddito spesso è rimasto una chimera. Non ha risolto i nostri problemi la sfida dei cento quintali, l’uso massiccio di mangimi e concimi ne la cerealicoltura estensiva tipica del continente e poco avvezza alle aziende mediterranee. Dovremmo recuperare laddove si è persa, la fiducia nelle condizioni agronomiche più equilibrate che sono quelle delle aziende multi colturali. Così la multifunzionalità dell’azienda agricola che spesso abbiamo invocato e che riteniamo indispensabile per una miriade di realtà ha anch’essa in corpo la sua serpe. Una serpe accattivante e piena di incentivi lusinghieri che non vedo utili però al nostro contesto, che a priori rifiuto anche in altri contesti per un discorso più etico che economico; produrre derrate per trasformale in gas naturali. Premesso che quando verranno a mancare gli incentivi, ad oggi l’impresa risulta antieconomica, comporta la monocultura per di più con una scarsa attenzione agronomica, con le immaginabili conseguenze di impoverimento del substrato fertile che sarà oggetto di indiscriminati spandimenti di rifiuti dei digestori con conseguenze che ad oggi non conosciamo. Che dirà fra vent’anni la fertile pianura padana, sarà ancora propensa ad elargire prodotti di qualità superiore, sarà ancora un giardino dove troverà ristoro la mente ed il corpo, ci saranno ancora questi colori e sapori?
Una politica questa dell’ultima PAC che probabilmente non riuscirà a dare un futuro e una prospettiva definitiva, che non ha colto le vere esigenze di chi questa terra la ama e la vuole conservare per i propri figli, ma che di contro potrebbe vedere sparire i nostri grandi orti e forse anche il bosco, con il conseguente rischio di chiusura di altre attività agricole trascinando con se tutto l’indotto che gli gravita intorno.
Io non so né può essere di mia competenza, ma di una cosa son certo, perché me l’hanno insegnato e lo tocco con mano: nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, anche se personalmente come molti non so come alcune cose si trasformano e con quali conseguenze. Di una cosa però ho certezza: che laddove semino il mais piuttosto del sorgo, fagiolini cipolle e pomodori non nascono, che a coltivare cinquecento ettari di mais bastano poche macchine mastodontiche e due unità lavorative………..a sfamarci ci penserà la Cina.